24 ottobre - 13 dicembre 2020
CASA NATALE DI RAFFAELLO - URBINO
Nell’anno delle celebrazioni per il cinquecentenario della morte del “divin pittore”, la Casa natale di Raffaello a Urbino, ospita la mostra “Mangiaterra Marcucci. Dal principio urbinate" dedicata ai due artisti marchigiani, accomunati dal rinnovamento della cultura artistica germogliata in città alla fine degli anni Sessanta del Novecento.
L’esposizione inaugura al pubblico sabato 24 ottobre alle ore 11:00, ed è promossa dall’Accademia Raffaello e dalla Fondazione Alessandro Rigi Luperti, con il patrocinio e contributo della Regione Marche, i patrocini del Comune e dell’Accademia di Belle Arti di Urbino e il sostegno degli sponsor Brun Fine Arts London e azienda Moretti Ugo. La mostra resterà aperta fino al 13 dicembre 2020.
A cura di Alberto Mazzacchera, il progetto mette in luce periodi specifici dei due artisti, già allievi dell'Accademia di Belle Arti urbinate, che hanno vissuto intensamente i tumultuosi anni Sessanta e gli ampi orizzonti del decennio successivo, e mette a confronto la prima produzione, figlia di quella temperie culturale, con gli esiti più recenti della loro ricerca.
Bruno Mangiaterra (Loreto 1952) e Bruno Marcucci (Cagli 1948) compongono un interessante binomio, un differente approccio, ben rappresentativo del clima in cui hanno vissuto e degli insegnamenti che hanno voracemente assorbito.
Nell’Accademia costituita nel 1967, dapprima guidata da Bruscaglia e poi da Pozzati, sono giunti entrambi sul finire degli anni Sessanta. I due studenti fanno proprio quanto andava immaginando Concetto Pozzati che, nel 1972, asseriva: “Il nostro comune sforzo è di stimolare e costruire, di volta in volta uno spazio interdisciplinare […] in modo da contribuire alla formazione dell’artista inteso come tecnico-professionista e come ‘intellettuale’”. Una formidabile occasione di ampio respiro sul fronte del rinnovamento formativo nelle discipline dell’arte.
Le opere realizzate dai due artisti in quel periodo sono quanto mai emblematiche e rappresentative e si possono ammirare nella prima sala collettiva: di Mangiaterra, per esempio, Sottovuoto e Cuscino - cuore di piombo, del 1972, e Al volo del 1973; di Marcucci, i senza titolo del 1972-73 e Sedimento vetrocamera del 1975; nelle due sale personali, sono esposti invece i lavori realizzati negli ultimi anni.
La proposta artistica più recente di Bruno Mangiaterra conduceva il visitatore in un fitto canneto, per poi entrare in un bosco monocromo. Un coinvolgente percorso che ha strutturato, avendo bene a mente l’antica valenza sacrale e religiosa del bosco, la sua portata simbolica, il suo essere un tempo labirinto iniziatico.
L’artista propone ora una nuova avvincente narrazione che ha vari punti di contatto con il testo Les aventures du philosophe inconnu en la recherche et l'invention de la pierre philosophale, stampato nel 1646, opera prima del vescovo alchimista Jean-Albert Belin. Il giovane protagonista al termine di un rocambolesco cammino alla ricerca della pietra filosofale, della conoscenza nascosta, un giorno va “tutto solo in un boschetto” con un libro di filosofia. All’improvviso gli appare la Sapienza che spiega come la ‘Pietra’ sia alla portata degli “uomini che sono uomini – ovvero per quelli che vogliono ragionare”.
Ed ecco come Mangiaterra, dopo aver impaginato un bosco, un fitto canneto dove le idee sotto forma di lingue dorate, a tratti penetrano per dischiudere nuovi orizzonti, fa apparire sulle calcografie del pregevole libro d’artista Elegia delle pietre (2020) proprio la pietra filosofale Dipinta su carta, spesso di tipo scenografico, appare libera da ogni forza gravitazionale, galleggiante in un vuoto senza limiti in sospensione temporale. Tre grandi lucenti pietre dorate, giustapposte alla serie della Scuola di Atene (2020), hanno l'intento di far sprofondare l'osservatore nella superficie della pittura. Ma soprattutto il nuovo ciclo di Mangiaterra è una riflessione sulla necessità di essere uomini, liberi dal giogo di ogni schiavitù attraverso conoscenza e sapienza. Rammenta Mazzacchera come Pierre Restany scriveva, non a caso, a Mangiaterra giudicandolo “un umanista superbo di maturo quattrocento”. E lo stesso puntualizzava: “Ti sei creduto concettuale poiché la voglia di conoscere, indagare, riflettere, dissacrare, trasformare ti spingeva a fare, frugare tra conoscenze e scienze, filosofie e politica. La gestualità, in certi momenti ti ha esaltato in modo quasi maniacale, ma, l’equivalenza antimoderna che hai voluto sempre porre, tra peso del lavoro e peso della persona ti ha condotto a un sentiero di mistico ascetismo”.
A rappresentare la feconda produzione dell’ultimo periodo di Bruno Marcucci sono tre serie pittoriche.
Si parte dagli Iceberg (2016-2020), con l'evoluzione degli Estroflessi tridimensionali, un tema che si è dispiegato in più anni con accenti diversi, senza mai stanche ripetizioni. Dall’oscurità profonda degli abissi interiori prendono corpo e si liberano frammenti camaleontici di energia, che mutano cromia muovendosi verso l’alto, verso la superficie della mente, del percepito.
Accanto è il ciclo dei Palinsegni (2018) frutto di sapienza tecnica, di abili alchimie, di segni mai casuali ma sempre dominati e composti con meticolosa sonorità. Il procedimento consente di far emergere i soggiacenti segni fissati nel film pittorico acrilico dando respiro all'opera. Negli ultimi anni la tavolozza, che era dominata dalle tonalità nere e grigie con talvolta lievi striature biancastre, si è andata arricchendo. Spiega Mazzacchera: “ne è uscita una felice produzione che si staglia sui fondi blu, verde e giallo. La composizione in alcuni casi nel rarefarsi ha preso ad amalgamarsi attorno ad una struttura formale del tutto nuova, una immaginaria mappa urbana, quasi un labirinto della mente in cui lo sguardo si impiglia o prende a correre verso ipotetiche vie di uscita”.
Infine, certi passaggi maturati in primis attorno al perimetro degli Iceberg aprono a quella che recentemente sempre più si va delineando come una serie di opere di un nero assoluto, dalle superfici incise, a tratti increspate, vibranti, come attraversate da un lento ma potente magmatico moto interno. Continua il curatore: “Quando ci si trova dinanzi a tavole frutto dello stesso tema ma apparentemente di un nero siderale, appena l'occhio si abitua a muoversi rapido per cercare in questo caso le incisioni dei gesti pittorici, la superficie si dilata verso le profondità degli abissi primordiali: lasciandosi risucchiare, abbandonandosi, ci si addentra di un altro passo negli spazi infiniti della psiche”.